10 marzo 2015. Zerocalcare è ospite al Cecchi Point di Torino. Ci stringiamo nei posti a sedere per starci tutti, ma a sbirciare da fuori attraverso i vetri sono ancora in tanti. Il semicerchio che lo circonda è composto dai ragazzi che collaborano con il progetto del Salone Off 365, che, dopo aver studiato le sue tavole e letto tanto su di lui, sono pronti per rivolgergli di persona domande che ne facciano emergere le esperienze più significative.
La prima domanda è ambiziosa “Quali sono le tappe fondamentali della crescita di un uomo?”. Spesso i suoi fumetti, infatti, sono lo specchio di un’agitazione emotiva che lo insegue dall’adolescenza e che, attraverso le vignette, riesce ad entrare in contatto con le più disparate generazioni di lettori, proprio per la magnetica capacità di affrontare i dilemmi del quotidiano, modello microscopico dei cambiamenti contro cui  ognuno di noi si trova a sbattere.
“Non dipendere economicamente da qualcuno è ciò che ha cambiato la mia percezione, l’idea di provvedere a me stesso. Il lavoro, prima incerto, poi di recente sempre più certo. E ancora gli schiaffi presi al G8. Solo ora sto facendo pace con dei pezzi della vita mia, solo da un anno riesco a dire che di mestiere faccio i fumetti”. Risponde così, sgranando una riflessione via via sempre meno incerta, ad occhi bassi che iniziano a cercare il pubblico”Non riesco tanto a parlare perché sono timido, ma poi mi sciolgo eh”.

Il confronto prosegue attorno al tema della memoria, centrale nelle storie del fumettista di Rebibbia.”In Dimentica il mio nome che ruolo gioca la memoria?”
Fare fumetti esprime il bisogno di non perdere i ricordi della sua vita finora, soprattutto l’incontro con le persone, ma non solo, è un’esigenza razionale. L’impegno, insomma, di fissare la memoria di chi lo circonda e di trasmettere dei valori, secondo il mantra ereditato dal contesto politico e culturale “partigiano” in cui è vissuto e in cui continua a vivere con la sua comunità del centro sociale.

“Come nasce allora la tua spinta a disegnare?”
“Disegno da quando ero piccolo, quando non volevo far vedere quel che facevo a nessuno. Lo slancio comunicativo è comparso a partire dai 16 anni. Vivevo nel mondo delle band punk dei miei amici e, non sapendo cantare, disegnavo i volantini delle serate e le copertine dei loro dischi. L’esigenza narrativa vera e propria nasce dopo aver partecipato al G8 di Genova con gli amici miei, non per esorcizzarla ma per iniziare a far circolare quel che avevo percepito.”

“Tanti sono i tuoi riferimenti ai Centri sociali, perché allora non compaiono nelle tue vignette?”
Nei miei fumetti metto tanta autoironia per parlare del mio mondo, é vero, ma anche molta serietà nei confronti della mia comunità. Non ho la capacità di prendere in giro quella che è per me una famiglia e non desidero nemmeno raccontarla come un’oasi e farle propaganda, non voglio strumentalizzarla. Fare fumetti è per me qualcosa di molto personale, non posso riportare dal mio solo punto di vista qualcosa che è una realtà collettiva”.

Si ritorna poi a chiedergli della sua presenza quotidiana sul blog. “Qual é il tuo rapporto con il web per quanto riguarda il tuo lavoro?”
“Schifavo il web come spazio in cui far comparire i miei fumetti – ammette – non la consideravo roba vera come il cartaceo. Il blog è nato per promuovere il mio primo libro che poi ho auto-prodotto, nonostante credessi poco in questo progetto sulla rete all’inizio. Ora sono molto legato ad Internet, lo uso perché non ci sono mediazioni, posso disegnare quello che voglio senza sentirmi in obbligo di soddisfare chi mi legge. In fondo disegno gratis. Col cartaceo invece mi sento responsabilizzato: non di fare contento chi compra, ma di impegnarmi di più in quel che realizzo”.
Emerge poi dai ragazzi la curiosità per la sua esperienza più recente a Kobane, un pezzo del suo cuore. Il viaggio nel Rojava, racconta, è di fatto l’ultimo tassello di un pluriennale contatto con la realtà curda, conosciuta negli anni in cui a Roma i centri sociali erano porto dei profughi che scappavano dalle guerre sul confine siriano. Innamorato di questo popolo irriducibilmente combattivo e poco ascoltato, Zerocalcare e alcuni amici partono alla volta di Kobane con la Staffetta romana, una campagna di solidarietà a cui partecipa senza lo scopo, almeno iniziale, di realizzare un fumetto, precisa. La rivoluzione curda, continua, tratta temi sociali molto vicini al nostro Paese – l’ecologia, le pari opportunità e l’istruzione, solo per citarne alcuni-, centrali per il movimento autonomo curdo e trattati all’interno di un programma politico da cui imparare. Quel che più fa paura sul confine siriano, prosegue, è la grande efferatezza commessa dall’Isis, la distruzione monopolizzata come strategia di marketing, subita anche da lui. Kobane Calling nasce così, durante i mesi trascorsi a collaborare e a resistere nella città che l’aveva chiamato a sé. “Perché -spiega- non sono capace, nonostante tutti i miei sforzi, di fare lo sceneggiatore di trame articolate, sono capace di scrivere storie che ho vissuto, cose strambe e le emozioni mie con cui le ho attraversate, quindi non sarei in grado di fare fumetti senza esserci  io dentro”.

L’incontro si conclude così, nel clima coinvolto e ironico delle sue sincere rivelazioni. La bellezza dei suoi fumetti è proprio questa: dal suo stile per sottrazione,senza ombre, senza muscoli e contorni reali -come lui stesso ammette- passa un vagone di esperienze e sensazioni in cui lettori vecchi e nuovi sanno immedesimarsi.

Alice Dominese e Elena Rickler, Liceo Cavour  di Torino