Ora lo ricordo bene, quel cartellone pubblicitario. Ricordo che lo vidi poco fuori Nashville, Tennessee, mentre ero di fianco ad Andrew, il ragazzo che mi ospitava, seduto a bordo del suo sgangherato pick up Chevrolet (sul cui muso, così mi disse, avrebbe voluto montare un paio di grosse corna taurine, so classy). Stavamo viaggiando, non so più diretti dove, su una larga strada a più corsie, almeno tre, contornata da pochi bassi edifici, diners per lo più e qualche pompa di benzina. Torreggiava sui bassi profili circostanti, tenuto su da un alto traliccio, questo gigantesco cartellone bianco con scritto “eat mor chickin”. Nell’angolo in basso a destra c’erano due mucche, non disegnate, ma in tre dimensioni, una sopra l’altra, quella sotto che faceva come da scaletta affinché quella sopra potesse, così suggeriva la microfinzione pubblicitaria, meglio scarabocchiare, con la sua grafia (e ortografia) malcerta, l’invito a mangiare più pollo sul pannello bianchissimo. Ricordo che mi fece sorridere. Era la pubblicità di una catena di fast food a base di pollo, qui in Italia pressoché sconosciuta, ma lì molto diffusa, di nome Chick-fil-A.
Quest’immagine mi è tornata alla mente, dopo un certo periodo di latenza, riprendendo in mano Bloody Cow di Helena Janeczek in occasione degli incontri con l’autrice organizzati all’interno del progetto del Salone del Libro “Adotta uno scrittore”. Bloody Cow è un piccolo ma denso libricino che nasce come ultima parte (“Quasi un epilogo morale” era il sottotitolo che lo accompagnava) del romanzo Cibo. È presentato come «reportage sulla malattia di Creutzfeldt-Jacob», il cosiddetto morbo della mucca pazza, ma quest’etichetta non dà bene l’idea della sua natura, o meglio, delle sue nature. È un oggetto letterario difficilmente definibile che intreccia efficacemente al racconto della diffusione del morbo e alla storia di una particolare vittima, Clare Tomkins, memorie personali, riflessioni sul mangiar carne, digressioni di vario tipo, in un’unica catena associativa che non permette un attimo di sosta al lettore. Una simile congerie di materiali eterogenei non sfugge tuttavia all’orbita del testo grazie alla narratrice, centro gravitazionale e filtro attraverso cui percepiamo la realtà narrata e descritta, un filtro però a densità variabile, che ora permette di vedere solo tramite la sua mediazione, ora si fa trasparente fino quasi a sparire.
È nel primo modo che si apre il libro, sul chiacchiericcio mediatico di cui vengono riportate le tesi complottistiche, scatenato dalla scoperta delle prime mucche pazze in Italia: «perché dev’esserci qualcuno dietro a quella dozzina di vecchie vacche da latte che nessuno si è mai sognato di farci mangiare: le multinazionali della soia transgenica, le lobby degli allevatori di pollo […]», ma dalle lobby del pollo passiamo in fretta, seguendo il movimento di una scrittura che sembra replicare il movimento vorticoso dei pensieri, al ricordo del pollo che l’autrice comprava a Monaco per la madre malata «per farne un brodino e forse anche un piccolo polpettone leggero leggero» e poi, poco dopo, a riflessioni sul concetto di carne. La mediazione della narratrice si vede innanzitutto nei continui salti logici da un paragrafo all’altro, da un procedere del testo appunto per associazioni, ma anche nelle riflessioni e nei ricordi personali che si intercalano. Forse, incoraggiata da questo andamento divagante del libro, è tornata alla mente di me lettore l’immagine del cartellone pubblicitario americano, favorita anche dall’accenno in Bloody Cow alla competizione tra le due industrie alimentari, dei polli e delle mucche. È stato curioso scoprire allora che nel 2004, dopo il primo caso accertato di persona colpita dal morbo negli Stati Uniti, quel tipo di pubblicità venne sospesa perché la catena non risultasse insensibile all’opinione pubblica. Maliziosamente, potremmo dire noi, perché non era più necessaria.
Come detto prima, la presenza della narratrice non è sempre così evidente, anzi, dopo la metà del libro, quando compare Clare Tomkins, essa si avverte sempre meno, per poi tornare in primo piano alla fine. Clare era una ragazza inglese morta per il morbo a 24 anni dopo essere divenuta vegetariana ad 11. Si avverte una sterzata nella narrazione, la storia della malattia di Clare è narrata in uno stile diverso, lineare, asciutto. È poi una dichiarazione esplicita dell’autrice a confermarcelo: “non ho mai fatto tanta fatica a scrivere, pur cercando di allontanarmi poco dal tradurre, riassumendolo, il verbale firmato dal padre di Clare. Non avrei saputo che cos’altro fare”. Di Clare, e lo dichiara, non conosce molto, al di là del terribile decorso della malattia, ma cerca di immaginare come poteva essere la persona dietro la storia, facendo supposizioni, anche andando per tentativi, come quando cerca di figurarsi la scena in cui la bambina di 11 anni dichiara ai propri genitori il fermo proposito di non mangiare più carne. Solo una divergenza lega, paradossalmente, le vite di Clare e della narratrice: la prima rinuncia alla carne per amore degli animali, la seconda, dopo essersi resa conto, bambina, che a wiener schnitzel, suo piatto preferito, corrisponde vitellino (suo animale preferito) morto, persiste, non vuole rinunciarvi. La prima, vegetariana, muore, la seconda, carnivora, continua a vivere e della prima può raccontare la storia. È questo il parallelismo oppositivo da cui scaturisce e su cui si fonda Bloody Cow.

Paolo Cerutti