Time Square è sempre stata affollata, ma quella sera era particolarmente gremita dalla folla. Era la sera di capodanno del 2199, la fine del secolo, e quella notte il pianeta era così scintillante da sembrare un diamante nell’universo. Avevo quattordici anni e quella sera ero là a festeggiare anch’io.
Pochi secondi prima della mezzanotte, la famosa palla di cristallo che scandisce i secondi del capodanno di Times Square esplose con un boato fragoroso e, incendiatasi, precipitò da duecento metri di altezza sulle migliaia di persone che si accalcavano sotto, esplodendo nella famosa piazza.
La mattina di capodanno il telegiornale annunciò che a Times Square si era consumato un attentato terroristico. Da quella mattina i cieli degli Stati Uniti furono invasi da migliaia di caccia da combattimento cinesi.
La Cina, a seguito dell’alleanza con gli tutti gli stati islamici, era diventata la potenza militare ed economica più forte al mondo. L’Europa aveva visto il suo tramonto alcuni decenni prima, diventando un continente di poveri agricoltori. Gli Stati Uniti erano rimasti l’unica potenza mondiale in grado di contrastare il nuovo potere cino-islamico e, per questo, non erano più un luogo adatto per vivere e prosperare serenamente. Così il presidente americano Jones aveva ordinato l’espatrio in Europa di tutti i civili, fatta eccezione per coloro che avevano prestato servizio militare in passato, i quali dovevano rimanere in territorio statunitense.
Mio padre, pertanto, dovette separarsi da noi ed arruolarsi nuovamente nei marines per contrastare i nemici cino-islamici. Jack, mio fratello minore, la mamma ed io ci trasferimmo temporaneamente in Normandia, nel nord della Francia, nella fattoria di nostra zia Louise.
Durante il primo anno di guerra, mio padre ci inviava un video messaggio mensile per rassicurarci, e non dimenticava mai di dirci che ci voleva bene, che noi gli mancavamo e che la guerra sarebbe finita presto. Alcuni messaggi però erano molto più lunghi, ma la mamma non ce li lasciava leggere. Un giorno, però, mi capitò di trovare il computer della mamma accesso, e presa dalla curiosità, provai a leggere uno di questi messaggi più lunghi. Fu terribile.
Mio padre parlava di quanto fosse difficile sopravvivere e di quanto importante fosse diventata la vita, parlava della paura di non risvegliarsi dal sonno, del terrore che le bombe, che sentiva fischiare cadendo, colpissero il suo rifugio.
Vedeva bambini della mia età con gli occhi a mandorla imbracciare mitragliatrici, ed uccidere per non essere uccisi.
Vedeva donne in divisa, con sguardi gelidi ed apatici, smistare i “puri” dagli “ impuri”, separando le minoranze etniche come i messicani o gli africani, dalle razze superiori, o distinguendo “i diversi” come gli omosessuali o gli zingari, dagli altri “normali”. E facevano questo con freddezza e distacco, senza ricordare che anche loro, in quanto donne, fino ad un paio di secoli prima erano considerate di fatto persone di valore inferiore.
Con lo sguardo nel vuoto mio padre raccontava di alcuni episodi a cui aveva assistito durante le missioni di spionaggio che aveva fatto nel nord del Canada, in Alberta, dove venivano mandati gli impuri. Costretti a pesantissimi turni di lavori forzati nei Purgatori, i campi di lavoro così chiamati in quanto luogo di purificazione degli impuri. La maggioranza era impiegata nell’estrazione del petrolio, lavorando diciotto ore al giorno, sopportando i rigidissimi inverni canadesi, spesso vestiti di soli stracci e alimentati con poco più di un brodo di buccia di patate. I più deboli, che non erano in grado di sostenere i turni di lavoro, venivano sciolti con secchiate di acidi corrosivi.
Da marzo, quindi poco più di un anno dopo la nostra partenza dagli Stati Uniti, non ricevemmo più alcuna notizia di papà. La mamma diceva che il motivo era dovuto al fatto che nelle zone di battaglia c’erano molte cose da fare e papà non aveva tempo sufficiente per mandarci le notizie.
Mentiva, e le si leggeva la tristezza negli occhi. Il suo sguardo smarrito preannunciava l’arrivo di un telegramma che, infatti un giorno arrivò da Washington: non la vidi più sorridere.
La morte di papà nella nostra famiglia è stata come togliere i colori a un arcobaleno: mamma stava sempre chiusa in camera con zia Louise che cercava di confortarla, Jack non parlava più, ed io per sfuggire la tristezza della fattoria della zia Louise, passavo le giornate sulle spiagge ad osservare l’Oceano, allungando lo sguardo all’orizzonte sperando di vedere la nave che ci avrebbe riportato a casa.
Avevo scoperto che secoli prima, le stesse spiagge della Normandia su cui ora passeggiavo, erano state teatro di un grandioso sbarco militare, e che tale operazione aveva poi portato alla conclusione della seconda guerra mondiale. Una delle potenze militari che era stata protagonista dell’evento era quella americana. Mi piaceva pensare che anche papà, come i milioni di soldati che erano morti su quelle spiagge, sarebbe stato ricordato per aver partecipato ad un’eroica azione militare. Le bianche croci dei soldati americani che si allineano sul prato verde giusto davanti ad Omaha Beach ricodano , uno per uno, tutti i caduti americani dello sbarco in Normandia. E fu proprio ad Omaha Beach, una mattina mentre passeggiavo sulla spiaggia, che misi il piede su di un oggetto che spuntava appena dalla sabbia: una piccola scatoletta di metallo, vecchia ed arrugginita, conteneva una lettera indirizzata ai posteri, scritta su quella spiaggia da Franklin Marshall, un ragazzo ventenne che nel lontano ventesimo secolo era sbarcato su quella spiaggia. La lettera diceva:
6 Giugno 1944.
“A chi mi leggerà,
sto andando incontro alla morte come tutti i miei compagni, seduto dentro al mezzo da sbarco che ci sta portando sulle rive di Omaha ma, nonostante sia giovane e non abbia potuto godere di tutte le gioie della vita, sono contento di sacrificarmi per salvare il mondo, e lotterò con tutte le mie forze per farlo, come il mio presidente Roosevelt vuole “fai ciò che puoi, con ciò che hai, dove sei”. Questo sbarco, come questa guerra resteranno per sempre nella storia, e verranno studiate dalle prossime generazioni, perché sono episodi da cui trarre insegnamento affinchè non si ripetano eventi simili. Ma la triste realtà e che anche se noi moriremo come eroi pensando di aver salvato il mondo, il mondo non sarà mai salvo perché ogni generazione avrà il suo Hitler. Sta a voi uomini e donne che conoscono la storia evitare che il timone del mondo venga preso dalle mani sbagliate. “Historia magisra vitae” diceva Cicerone, imparate dalla storia ed evitate di commettere errori già fatti. La storia oggi si sta già ripetendo, visto che la guerra che sto combattendo è la seconda.”
Ora sono un insegnante di storia finalmente a casa nella Grane Mela, quella lettera da piccola mi ha illuminato il percorso della mia vita. Il mio compito ora è trasmettere alle nuove generazioni quello che Franklin ha trasmesso a me ormai quarant’anni fa, e sono convinta che anche partendo da queste piccole cose, come insegnare bene la storia, si possano evitare conflitti mondiali.
Matilde Battistella 4E
Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone