1. Marco e il cruciverba

Quando entro in un carcere qualunque, più o meno malandato, più o meno moderno, penso a quello che mi disse un detenuto, Marco, qualche anno fa. Era appena passata l’estate. Faceva un po’ meno caldo e nelle celle si cominciava a respirare meglio. Parlo di lui perché ho potuto registrarlo. Posso trascrivere le sue parole, che non sono diverse da quelle che ho sentito in giro. Da quelle che ho sentito a Spoleto.

Marco ha quattro figli. Tre grandi con la prima compagna. Una piccola con la seconda. Mi parla del passaggio “dal vecchio al nuovo” come dice lui. Dal carcere di quaranta anni fa a quello che ha conosciuto negli anni successivi fino a oggi.

«Il vecchio era molto rispettoso. Il rispetto per l’agente e per il detenuto. Quello che ha rovinato tutto è stata la droga dagli anni ’80 in poi. A quel tempo che è arrivata la droga dovevi girare armato e se non avevi l’arma non eri nessuno. ‘sta finestra sono tre coltelli – dice indicando i battenti – ci escono tre punteruoli perché c’ha le chiusure che entrano sopra e sotto. Si smonta la finestra e ce se fanno i punteruoli. Il manico si fa con la busta di plastica vicino al fornello. Con un panno lo stringi e ci fai anche un gancio per riportarlo indietro, per non lasciarglielo dentro».

Sorride mentre racconta. Sta riprendendo un discorso che abbiamo fatto qualche giorno prima. S’era parlato delle posate. Non le distribuiscono quelle di metallo.

«Ti danno cento forchette di plastica al mese pe’ dieci persone. Come le metti in bocca si spezzano. Lo fanno perché dicono che quelle di metallo sono armi. Ma se devo ammazzà qualcuno la trovo lo stesso una maniera». E infatti s’erano messi in tre o quattro a raccontare come si può uccidere senza armi vere e proprie. Uno aveva detto «se devi ammazzare uno, aspetti che si mette a dormire. Scaldi l’olio sul fornello e glielo coli nell’orecchio. Gli squagli il cervello».

Se vuoi uccidere qualcuno non c’è una maniera per evitarlo. Così come per il suicidio. Al manicomio di Roma ci fu un paziente che si lanciò a testa bassa contro un muro. Puoi togliermi tutto, ma non il muro. Se voglio farmi del male, lo faccio.

Tutto qui. E infatti il vero pericolo nelle istituzioni totali è l’autolesionismo.

Ma il carcere “rispettoso” del quale parla Marco è differente da quello che potremmo immaginarci. Non è l’istituto dove si fraternizza. No.

«Io so’ per il carcere duro» dice sorridendo». «Mi faccio il mio carcere seduto sul cesso» dice. Nel senso che si fa gli affari suoi, aspetta che passi il tempo.

«Tu al giudice non gli puoi dare la possibilità di darti da 6 a 20 anni, per esempio. Tu vai al processo e non sai quanti te ne darà il giudice. Che ne sai? C’è un ragazzo incensurato in stanza con me, venuto dall’Albania, per 13 chili di erba… che lui è un camionista, gli hanno dato tremila euro per andare a Milano a portare quell’erba… L’hanno fermato al porto di Ancona e gli hanno dato 8 anni. Ma è possibile? Ma che me li dai a fa’ tutti ‘st’anni? Capito come la penso io? Poi magari dopo quattro anni riesce a farsi mandare al paese suo. E otto anni so’ diventati quattro. Oppure non ci riesce, va fuori di testa e fa una cazzata. Così lo riprocessano senza manche che esce e se ne fa quindici. Io dico che la pena deve essere certa e proporzionata. Quando sono rientrato in carcere mi hanno messo in cella con due rumeni, due cinesi, due siberiani… io ho visto come andava l’andazzo. Io me ne stavo sopra al mio letto e me facevo i miei cruciverba. Qui c’è gente che gli hanno dato un mese. Ma che me lo dai a fare?»

«Fuori io lavoravo da dieci anni, restauro di esterni, tinteggiatura, i tetti, tutto, ho preso pure il patentino per portare le piattaforme. Nel 2009 la ditta ha chiuso. Ho preso la disoccupazione perché superavo i 50 anni e poi lavoravo un po’ al nero. Prima portavo a casa sopra i 2000 euro al mese, c’avevo una figlia da due anni. Avevo lasciato perdere tutte le vecchie amicizie. Ciao, ciao. Poi con la disoccupazione però i pensieri ti vengono. Ho resistito. Nel 2010 mi chiama un pittore di Amatrice. Mi dava 90 euro al giorno più il mangiare. Chiamandomi saltuariamente. Una quindicina di giornate al mese. Andava bene così.

Dopo il 2011 a lui gli è calato il lavoro. I soldi finiscono. Quando a Natale non ho potuto fare manco un regaletto a mia figlia, m’è preso male. Ho incominciato a macchinare con la testa. Ho trovato ‘sta banca co’ due tre donne. Dico “vabbè, vado lì senza armi, senza niente. Pure se me pigliano… quanto me possono dare?” L’ho fatto pel mutuo da pagà, un prestito che avevo preso, a casa il frigorifero era vuoto, le bollette se cominciavano a ammucchiare. La gente dice “perché nun hai trovato n’altro lavoro?” e… nun è facile. Sei pregiudicato, nun c’è lavoro… la testa mia me diceva “che faccio? Che faccio?”

So’ uscito da ‘sta banca, senza armi, ho trovato i carabinieri. Ho pensato “quanto me possono dare? Tentata rapina, otto mesi?” E invece nel 2011 la Cassazione diceva che chi prendeva anche cento euro dalla cassa era Rapina Consumata. Se lo sapevo… non l’avrei manco fatto. Ti giuro. Poi me so’ pentito. Ma è inutile dire “me so’ pentito”»

Così Marco è tornato dentro per quattro anni.

«Non me ne frega proprio niente. Io faccio il colloquio il sabato coi speciali. Non me ne importa. Lo faccio il sabato perché c’è meno gente. Io non guardo a loro, loro nun guardano a me.

Io già tanto tempo fa ho chiuso con la malavita. Oggi non c’è più malavita. Oggi è solo droga. La droga comanda. Stop. Anche quelli che vanno a fa le rapine so’ tutti drogati. ‘na volta facevi una scazzottata e finiva lì. Oggi te sparano. Magari a un parcheggio… c’è mia moglie che litiga quando guida, suona il clacson, fa le corna, jé dico “fermate! Te può capità quello che scenne e te comincia a pijà a bastonate!” Ma è vita questa?»

Allora Marco preferisce farsi il carcere per conto proprio, sul cesso. Se ne sta a letto a fare i cruciverba.

«Preferisco il carcere duro. Il detenuto che fa il detenuto e l’agente che fa l’agente. Io sento certi che chiamano l’infermiera pe’ nome. Io nun me so’ mai permesso. Nun è un’amica tua quella! Sta qui a lavorare. Il passaggio è proprio questo. Mi faccio la mia galera e basta. ‘na volta non battevano manco le sbarre quando il detenuto stava in cella. Le battevano quando stavi all’aria. Non venivano a disturbare. Io nun chiamo manco il medico. Se sto male, me lo faccio passare. Se non mi passa, ci penso dieci volte prima di chiamare. Ci stanno quelli che chiamano di continuo. Ma secondo te ci va il medico da quelli? Non ci va. Al lupo, al lupo… e alla fine arriva il lupo per davvero e se li magna. In certe sezioni ‘na volta non sentivi volare una mosca. La guardia faceva la guarda, il detenuto faceva il detenuto. Non ci stava tanta finzione. Non facevi finta di essere amico. Qui non c’è amico per nessuno. E se fa l’amico … lo fa perché c’ha uno scopo. È tutta una recita. Io voglio solo sapere quanto mi dai da scontare. Me lo sconto e esco. Ma voglio uscire un minuto dopo la mezzanotte. Non voglio aspettare la mattina appresso. Non ti voglio regalare un minuto di più. Voglio serietà».

2. L’attore

Penso a Marco quando entro in carcere. A lui che si fa il carcere seduto sul cesso, ai suoi cruciverba. Penso al lavoro che ha perso. Dopo oltre dieci anni sui ponteggi, dopo aver preso il patentino per le piattaforme, s’è ritrovato senza lavoro. Ci stanno quelli che non si possono più permettere di pagare un affitto e tornano a casa dai genitori. Magari dalla madre vecchia, da una sorella vedova. Lui è tornato alla sua malavita, alle rapine. Un detenuto di San Vittore m’ha raccontato la stessa cosa. Per cinquecento euro ha fatto un carico di droga. L’hanno beccato. Il giudice gli ha detto «e tu hai rischiato di tornare in carcere per cinquecento euro?» E lui gli ha risposto «l’avrei fatto pure per la metà». La stessa cosa potrebbe dirla uno che gli chiude la fabbrica e dopo qualche mese di cassa integrazione si mette a fare l’operatore telefonico al call center, o il corriere, o il dialogatore in mezzo alla strada coi volantini in mano e il fratino addosso. A quel disoccupato gli chiedi «perché accetti di fare lo schiavo per trenta euro al giorno?» e lui ti risponde che domenica scorsa ha lavorato per la metà della cifra. Che prende ottanta centesimi lordi per una telefonata di tre minuti e una volta è stato un giorno intero al call center per rispondere tre volte al telefono. «Fatti il calcolo di quanto ho guadagnato» ti dice. «Mi ci sono pagato il biglietto dell’autobus».

Un pregiudicato torna all’attività che gli da da campare. Accetta il rischio. Fa il passo che lo porta con tutti e due i piedi dall’altra parte della legge.

Quasi tutti quelli che stanno dentro a vent’anni hanno già conosciuto il carcere. Se t’è andata bene, se sei uno sveglio, se hai trovato qualcuno che t’ha dato una mano e t’ha insegnato come si campa dietro le sbarre riesci pure a uscirne vivo e lucido. Ma se non sei un illuso l’hai già capito che la tua vita è segnata. E se non proprio la tua, almeno quella dell’ottanta per cento dei soggetti come te.

Passati i trent’anni ti ritrovi tre figli, un po’ di soldi da parte e una decina di lavori alle spalle. Tutti mestieri che dondolano tra la legalità e l’illegalità. Manco tu riesci a distinguere bene quando passi la linea, quando stai più da una parte che da quell’altra.

A cinquant’anni sei fortunato se i figli non hanno fatto la stessa strada tua. O almeno che non li hanno mai beccati. E se c’hanno una famiglia loro magari sono riusciti a trovarsi un lavoro che per la gente è considerato onesto. Non proprio legale, ma almeno rispettabile.

A settant’anni hai passato un quarto della vita a contare i giorni, a fare domandine, a trovare la forza di stare tranquillo, di abbozzare senza farti mettere i piedi in testa. In carcere ti hanno fatto fare i corsi di teatro. Bene! Tu sei l’attore più bravo di tutti. Tu sai fingere. Se ti chiedono di fare Shakespeare, glielo fai. Sei ubbidiente e preparato. Glielo fai classico in calzamaglia col teschio in mano, ma pure sperimentale d’avanguardia con le calze a rete e la parrucca da scema. Gli fai le facce brutte proprio come se l’aspettano quelli che ti vengono a vedere. Ma tu non hai fatto le scuole come gli attori che stanno fuori. Tu hai imparato a fare l’attore per recitare coi compagni di cella, con le guardie, il magistrato di sorveglianza, il medico, lo psicologo e compagnia bella. Hai dovuto impararlo per forza. Se ti chiamassero a parlare ai convegni o in televisione gli sapresti spiegare come funziona la galera e, dunque, come funziona il mondo. Perché il carcere è solo un pezzo di mondo. Anzi è il mondo in sintesi, è il suo riassunto, la sua spiegazione. Quando capisci il carcere hai capito tutto. Non cerchi la libertà che pensano di cercare quelli che stanno fuori. Quelli che vanno in Cina in vacanza, che viaggiano con la barca a vela, che si mascherano da avventurosi scopritori del mondo. Tu lo sai che per essere liberi basta varcare il portone e fermarsi al bar di fronte all’istituto. Punto. A quei turisti gli potresti spiegare cos’è il tempo e lo spazio. Tu hai sempre avuto poco spazio e tanto tempo. Quelli lì fuori non lo sanno. Pensano di avere poco tempo e tanto spazio. Non si accorgono che lo spazio è tutto uguale e che il tempo non gli passa mai o passa troppo in fretta. Così buttano via entrambi.

Ma a te non ti chiamano in televisione e manco ai convegni. Meglio così. Meglio lasciare a quelli lì fuori l’illusione che sono i buoni perché in galera c’è la gente come te, i cattivi.

3. Scappare dentro

Esco dal carcere di Spoleto e penso che è davvero brutto. L’edificio in generale, i corridoi, le celle, gli uffici. Anche quando c’è una ricerca approssimativa del buongusto. Certi marmi, le scale a chiocciola, cose del genere. Tutto appare semplificato, grigio, disincantato.

Mi viene in mente quello che scriveva Franco Basaglia mezzo secolo fa nel testo “L’istituzione negata”. Per parlare del manicomio fa una serie di esempi passando dalla scuola all’ospedale, dal carcere alla famiglia. Tutte istituzioni sorelle alle quali potremmo affiancare la caserma, la fabbrica, eccetera. Scriveva che “Quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha” perché “la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società”. L’architetto autore del carcere di Spoleto è Sergio Lenci, lo stesso che ha progettato scuole, ospedali, palazzi di giustizia, case popolari e anche la casa circondariale di Rebibbia a Roma. Tutte istituzioni sorelle. Pagato da chi ha il potere ha costruire edifici per chi quel potere non ce l’ha.

«In medicina l’incontro tra medico e paziente si attua nel corpo stesso del malato» scriveva ancora Basaglia. E potremmo dire che anche in carcere è nel corpo del recluso che si incontrano lo Stato e il detenuto. Come nel passato la pena è inflitta nel corpo. Un tempo era visibile anche per chi non aveva commesso reati. Vedeva un monco e capiva che gli era stata tagliata una mano perché aveva rubato. Oggi il corpo non viene più mutilato per comunicare ai “giusti”. Il corpo viene nascosto. Ma resta comunque proprietà dello Stato che comunica al padrone stesso di quel corpo la propria supremazia. Le mura della cella ripetono di continuo al detenuto “tu non ti appartieni”.

E allora capisco il discorso di Marco che non si allea con l’agente. Vuole il carcere duro e rispettoso. Il carcere che non si condivide. Perché nella condivisione c’è il tranello. E lui vuole sottrarsi. Lui che vive legato sia dentro che fuori. Vuole sottrarre il proprio corpo e non consegnarlo alla galera.

Giorgio Flamini mi accompagna in stazione. Lo saluto e lo ringrazio. Tra poco salgo sul treno che mi riporta a Roma. Passo sotto il Teodelapio di Calder. È un’opera alta 18 metri. Ci si può girare attorno come a una rotatoria, ma anche passare sotto. Carcer -ĕris significa recinto, che è precisamente il contrario dell’opera d’arte sotto la quale sto passando. La attraverso, la riattraverso. Mi fermo solo se lo decido io. Mi allontano. Il carcere non funziona così. Dal recinto ci si può liberare solo scappando.

E quando non puoi uscire fuori, finisci per scappare dentro.

 Ascanio Celestini