L’incontro con le donne del carcere è sempre sorprendente e struggente; anche fuori pioveva, dentro invece si mescolavano lingue. Le donne vivono una doppia immagine di sé: a testa bassa per la condizione che le relega alla fine della società, e con gli occhi alti, fissi, sfidanti, che contengono tutta quella vita che lì dentro viene mortificata. E’ un buon carcere, credo, quello di Lorusso Cotugno, perlomeno ha le unità abitative per le donne madri, e credo spazi sufficienti a una sopravvivenza dignitosa. Come sempre hanno insegnanti straordinari, di cui, mi si diceva, molti volontari. Ci sarebbe da chiedersi quale meccanismo nefasto fa sì che con le graduatorie piene non si riesca ad attingere dal bacino degli insegnanti confermati la forza lavoro che deve operare nelle carceri. Le due cose che porterò con me sono una lettera che mi è stata consegnata da una detenuta che ha letto il mio libro ma che era stata trasferita, e le traduzioni, dall’arabo, dal francese, dall’inglese, dal romeno, che le donne si offrivano l’una l’atra per aiutarsi a seguire la mia breve lezione. In quella lettera ho trovato il senso della scrittura, ma è una cosa troppo privata, non posso scriverla qui.
Valeria Parrella
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