Parole taglienti che fanno riflettere quelle pronunciate durante la conferenza Il mondo dietro le sbarre, tenutasi al Teatro Comunale, stipato per l’occasione. A presiedere l’evento Marco Damilano de “L’Espresso”, che ha spezzato il silenzio con un frammento de “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault, da cui è stato possibile evincere i temi determinanti che la discussione avrebbe toccato, quali le caratteristiche delle prigioni o, più in generale, dei luoghi di detenzione, soprattutto quelli che ospitano stranieri provenienti da Paesi in cui, indipendentemente dal motivo che spesso si rivela essere di matrice bellica, non è possibile condurre una vita nei limiti della decenza umana.
Dopo aver introdotto la conferenza, Damilano ha passato la parola a Luigi Manconi, coordinatore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, che per prima cosa ha sintetizzato in avide cifre lo stato attuale del sistema penitenziario italiano: 60000 reclusi che superano la capienza ufficiale di quasi 10000 posti, 52 bambini da 0 a 6 anni attualmente in carcere con le proprie madri perché ancora lo Stato non riesce ad attuare una legge che tuteli tali situazioni e 67 suicidi all’interno delle prigioni nel corso del 2018, un numero che, sommato alle 79 guardie che si sono tolte la vita nell’ultimo decennio, lascia certamente emergere un sistema patogeno, che rischia di danneggiare a livello fisico e mentale chiunque ne faccia parte e , di conseguenza, lo subisca. L’ultimo dato che ha deciso di fornire era decisa a smentire l’accreditata opinione comune sulla presenza degli stranieri nelle prigioni che, a differenza del pensiero popolare, non supera il 30%. Un fraintendimento che sembra essere frutto della scarsa conoscenza a livello nazionale di istituti confondibili con le carceri che, pur essendo nati per l’accoglienza degli immigrati, sembrano privare l’individuo di ogni libertà; è un sistema che lo stato sociale non sembra essere più in grado di tutelare.
La situazione degli stranieri, a detta di Manconi, passa attraverso una data cruciale: il 1998, l’anno in cui viene attuata una legge da parte di Turco e Napolitano che prevede l’istituzione dei centri di permanenza temporanea (CPT), la cui finalità lacera crudelmente il nostro ordinamento giuridico, in particolare l’articolo 13 della nostra Costituzione, che recita: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Coloro che si trovano nei CPT non sono responsabili di un reato, ma di irregolarità amministrativa, che non può essere sanzionabile con la privazione della libertà. Chi è costretto a trascorrere un determinato periodo di tempo nei centri sopracitati sprofonda in una condizione nella quale, oltre a risolvere i bisogni primari, non ha la possibilità di usufruire di strumenti di svago o, addirittura, di pensare a un futuro: è una situazione che logora profondamente l’individuo, a cui dovrebbero essere invece garantiti i propri diritti. Dopo le parole spese da Manconi viene spontaneo chiedersi se questi centri tutelino l’accoglienza degli stranieri o ne privino la libertà..
Dopo il lungo intervento del coordinatore dell’UNAR, si sono espressi in merito a questo tema anche Michael Flynn e Rony Brauman, rispettivamente di Global Detention Project e di Medici senza Frontiere. Entrambi si sono schierati con il relatore italiano, denunciando però il problema su scala globale, facendo riferimento ad altri Paesi, come Messico, Turchia o Libia, che rispecchiano la situazione italiana. Infatti, hanno spiegato come, molte volte, malattie in Occidente ormai debellate o facilmente curabili, come la tubercolosi o il colera, si sviluppino nei campi di permanenza a causa del poco controllo e dell’incuria presenti al loro interno, arrivando spesso a ceppi immuni ai farmaci odierni.
Entrambi sono sembrati molto preparati e, nel complesso, si è rivelata una conferenza esaustiva che sicuramente ha sensibilizzato gli ascoltatori riguardo a un tema che spesso non viene considerato.
Francesco Vitali e Beatrice Cestari.
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