Era la fine del gennaio 2002, avevo nove anni e frequentavo la quarta elementare.
E, cosa più importante, non conoscevo l’odio di cui l’uomo è capace.

“Domani verrà a parlarci un signore, bambini. Ha vissuto degli anni molto brutti e non sarà facile per lui raccontarveli, quindi trattatelo con rispetto” ci disse la maestra.
Sul momento, mi venne da pensare: “Perchè? Perchè ricordare i dolori del passato, quando abbiamo una vita felice davanti a noi? ”
Arrivata a casa ricordo che ne parlai con mio padre, che rimase colpito dalla mia riflessione, ma commentò solamente con un: “Domani capirai”.

E venne la mattina dopo. All’incontro presero parte tutte le classi quarte e quinte: ci fecero sedere a semicerchio nel corridoio intorno al famoso ospite, un uomo sull’ottantina con due splendidi occhi azzurri.
Me li ricordo perché incrociai il suo sguardo per un attimo e sentii un brivido percorrermi la schiena.

Era un reduce della seconda Guerra Mondiale, ebreo e deportato a Mauthausen sul finire del conflitto, ma rimasto nel campo di concentramento abbastanza da assorbire nei propri occhi il gelo di tante morti folli e inutili.

Ci parlò a lungo della guerra e dell’odio, ma anche dell’amicizia e della solidarietà nata fra i deportati, che permise a molti di avere salva la vita.
Alla fine del racconto la sua voce tremò: una lacrima scese sul suo volto e anche sul mio. La commozione aveva avvolto tutti indistintamente e quel corridoio non era mai stato così silenzioso.
Gli rivolgemmo alcune domande e, nonostante avessimo solo nove o dieci anni, il rispetto per il dolore di quell’uomo, che avrebbe potuto essere nostro nonno, traspariva da ogni singola parola.

Tornata a casa non riuscivo a capacitarmi di quel racconto: può l’uomo arrivare a odiare così tanto?

Come ogni bambino, anche io avevo una vera e propria venerazione per mio nonno, all’epoca quasi novantenne, e gli chiesi se avessi ascoltato una brutta favola, sperando in una risposta positiva. Ovviamente non fu così: mi descrisse ciò che aveva vissuto durante la guerra, al freddo, sulle montagne montenegrine, riscaldato soltanto dalla speranza di tornare a casa e dalla solidarietà fra compagni.

A quel punto dovetti arrendermi alla verità: le vicende umane non sempre hanno il lieto fine.

Quell’anno, per la prima volta, feci caso all’epigrafe sulla tomba ad Alba del mio bisnonno , accanto alla data di morte.

Recitava e recita tuttora: “24 novembre 1944. Ucciso per mano tedesca”

Elena Sinistrero
IIIB Liceo Alfieri