Il pubblico italiano è diffidente verso il mercato del libro: l’associazione tra un oggetto “puro” e il denaro non sembra possibile. Una visione discendente dal sistema scolastico, abituato a sancire ciò che è bello e ciò che è brutto, e dalla più recente critica nei confronti dell’industria culturale.
Traendo spunto dal libro “I Dieci del Novecento” di Bruno Pischedda, al Salone Internazionale del Libro si è parlato del rapporto tra la produzione letteraria e il successo. Nell’opera l’autore riporta dieci esempi del secolo scorso che hanno raggiunto le vette della classifica e ne analizza pregi e difetti; durante l’incontro è poi stata sottolineata l’inattendibilità dell’opinione di evitare a tutti i costi i best-sellers, arrivando a formare una massa anti-massa.
“Appena pubblicato veniva aspramente criticato il “Nome della Rosa” di Umberto Eco, per il successo che aveva immediatamente riscosso”. Alcuni lettori sentono la necessità di distinguersi da tutti gli altri, ma perché criticare un libro solo sulla base delle vette delle classifiche raggiunte? La politica di edizione dovuta alla democratizzazione del mercato letterario, ha portato anche nell’editoria il sistema economico borghese. Gli autori devono dunque fare i conti con la reazione del pubblico, e un organo che controlli la qualità dei prodotti letterari “non è auspicabile, perché storicamente le istituzioni aventi il compito di stabilire il bello e il brutto artistico sono risultate fallimentari”.
L’editoria viene spesso definita come mezzo di diffusione della cultura, fine che indubbiamente si pone. Ma non si può dimenticare che anche gli editori sono imprenditori, che agiscono in un’azienda e – come specifica il professor Pischedda- si devono preoccupare anche di “far quadrare i conti alla fine dell’anno”.
Sveva Sacchi e Matteo Sartini, liceo Alfieri
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