Intervista per il Bookblog a Ivana Roagna, Avvocata ed esperta di Diritto Internazionale
Alla luce dei recenti bombardamenti avvenuti in Siria, ma anche dei tanti altri conflitti accesi attualmente nel mondo, sembra più che mai urgente trovare strumenti di tutela internazionali per le vittime dell’atrocità della guerra, le cui maggiori conseguenze ricadono soprattutto su donne e bambine/i.
Ci può raccontare, dal suo punto di vista, quali sono le priorità e quali le reali emergenze di cui gli Stati dovrebbero occuparsi con misure e politiche adeguate?
Le donne, donne abusate, stuprate, arrestate, vittime di tratta e schiavitù, donne e bambine dimenticate, sono certamente quelle che soffrono di più la brutalità della guerra. Ma, purtroppo, anche in occasione degli accordi di pace, sono spesso (per non dire sempre) dimenticate. Eppure sono le donne ad avere un posto chiave, ancorché non decisionale, nelle rivoluzioni di pace. Durante il regime Talebano le donne in Afghanistan si riunivano segretamente, per creare delle reti sotterranee di educazione e sanità, condividendo la loro conoscenza con altre donne. In Sudan, donne di opposte fazioni etniche e religiose si sono riunite per discutere di pace, realizzando obiettivi che gli uomini non erano riusciti a raggiungere. Queste due storie, illustrative di tante altre, mostrano i contributi importanti che le donne posso portare se solo potessero godere di la parità ed uguaglianza a tutti i livelli, anche quelli decisionali. In questo senso credo che la responsabilità principale della comunità internazionale sia quella di assicurare, in prima battuta, l’accesso all’istruzione, ad un’istruzione di qualità, alle bambine che ancora troppo spesso ne vengono private. E l’istruzione si rivela anche lo strumento fondamentale per costruire una consapevolezza dell’uguaglianza di genere, requisito imprescindibile ed indispensabile per offrire protezione – già a partire dal contesto famigliare – contro le forme di violenza di cui sono vittime le donne e bambine (violenza domestica, matrimoni precoci, tratta), che rappresentano terreno fertile giustificarne l’inferiorità e, di conseguenza, la limitazione di opportunità di scelta. Fino a quando le donne non verranno considerate aventi pari dignità con gli uomini, il loro ruolo continuerà ad essere secondario e al mero servizio degli uomini, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, negli stati in transizione, nelle democrazie in fieri ma anche in quelle, come la nostra, già consolidate.
Quest’anno al Concorso Lingua Madre hanno partecipato ragazze ospiti dello SPRAR di Mineo (CT) e di altre strutture di accoglienza. Ci può spiegare quali sono e come funzionano in Italia e quali sono le normative legate a questi luoghi di cui tanto si discute, ma su cui ancora non sempre si hanno informazioni corrette?
Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia è diviso tra strutture di prima e di seconda accoglienza. Della prima accoglienza, gestita dalle prefetture, fanno parte gli hotspot e gli hub regionali (nati alla conversione di altre strutture già dedicate all’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, come i CARA). Secondo la pianificazione del Ministero degli Interni del settembre 2015, tutti i migranti che arrivano via costa devono passare per un hotspot. All’interno dell’hotspot ogni persona viene identificata e fotosegnalata. I migranti soccorsi in mare che fanno richiesta di protezione internazionale all’interno degli hotspot vengono ricollocati negli hub regionali: si parla sia di quelli che rientrano nel cosiddetto programma di relocation (ricollocazione) (siriani, iracheni, eritrei, che dovrebbero andare nei paesi dell’UE secondo una serie di quote) sia di tutti gli altri. Quelli che invece non vogliono fare richiesta di asilo dovrebbero finire nei CIE (Centri di identificazione ed espulsione) e ricevere un decreto di respingimento. Entro fine 2016 era previsto che gli hub regionali arrivassero a mettere a disposizione 15.550 posti rispetto ai 12mila del 2015. Negli hub regionali i richiedenti dovrebbero rimanere tra i 7 e i 30 giorni. Al termine di questo periodo i migranti dovrebbero essere inseriti (il condizionale è d’obbligo) negli SPRAR o nei CAS.
La seconda accoglienza è rappresentata in prima battuta dallo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Lo SPRAR è un sistema costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. A livello territoriale gli enti locali, con il supporto delle realtà del terzo settore, sono così in grado di garantire interventi di “accoglienza integrata”, in grado di fornire un percorso individuale di fatto di misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, in grado di facilitare l’inserimento socio-economico. Le caratteristiche principali del Sistema di protezione sono:
il carattere pubblico delle risorse messe a disposizione e degli enti politicamente responsabili dell’accoglienza (Ministero dell’Interno ed enti locali); la volontarietà degli enti locali nella partecipazione alla rete dei progetti di accoglienza;
il decentramento degli interventi di “accoglienza integrata”;
le sinergie avviate sul territorio con i cosiddetti “enti gestori”, vale a dire gli appartenenti al terzo settore responsabili della realizzazione degli interventi. A fronte delle resistenze degli enti territoriali a partecipare a progetti che potrebbero portare all’apertura di nuovi SPRAR, il sistema di seconda accoglienza è stato integrato dai CAS (centri di accoglienza straordinaria), che sono una specie di replica degli hub ma che di fatto ospitano richiedenti protezione internazionale che avrebbero diritto ad accedere al circuito degli SPRAR. Anche i CAS dovrebbero garantire percorsi individuali di integrazione: corsi di italiano ma anche altre opportunità che favoriscano una qualche formazione professionale. Purtroppo il livello dell’offerta di SPRAR e, soprattutto, CAS è molto vario e la qualità non è sempre tale da garantire un accompagnamento efficace.
Secondo le direttive del Ministero dell’Interno, la commissione territoriale dovrebbe decidere la sorte dei richiedenti asilo entro 180 giorni dalla loro richiesta. In realtà i tempi sono molto più lunghi e ci sono richiedenti protezione internazionale che attendono oltre un anno prima di ricevere la risposta dalla Commissione territoriale competente. Il diniego della Commissione Territoriale può essere impugnato avanti il Tribunale e, per motivi di diritto, avanti la Cassazione.
Quali sono i numeri e le percentuali di presenza delle donne e delle minori che chiedono accoglienza in Italia? Esiste secondo lei un processo di “femminilizzazione” del fenomeno migratorio?
Secondo le statistiche dell’UNHCR aggiornate ad oggi la percentuale di donne richiedenti la protezione internazionale sono circa il 16,5% di tutti i richiedenti. A questo vanno aggiunte le bambine che rientrano fra il 25% di minori che richiedono la protezione internazionale. Nel corso del 2016 c’è stato un aumento del numero di donne migranti che hanno richiesto la protezione internazionale, la maggior parte proveniente dalla Nigeria. Secondo dati Eurostat tra dicembre 2015 e novembre 2016 all’interno dell’Unione Europea vi erano 1,293,125 richiedenti asilo, di cui 414,665 donne, (pari al 32%). Nell’anno precedente le donne erano il 27%. In Italia, nello stesso periodo, vi erano 118,295 richiedenti asilo, con una percentuale di donne del 15% (aumentata rispetto al periodo 2014 -15 in cui le donne erano circa 11%). Anche i numeri indicano una progressive femminilizzazione del fenomeno migratorio, le cui caratteristiche sono diverse da quella maschile. In particolare, la migrazione femminile dei richiedenti asilo è caratterizzata da motivi legati a violenza domestica, mutilazioni genitali o matrimoni forzati. Le donne hanno poi una minore autonomia nel processo decisionale complessivo, che determina che spesso diventino vittime, nel corso del viaggio, di ulteriori violenze o tratta.
Spesso, nei racconti che giungono al Concorso Lingua Madre, sono narrati e denunciati gravi episodi di discriminazione di genere e razziale. Quali sono le tutele giuridiche contro le discriminazioni per motivi etnico-razziali?
La disciplina antidiscriminazione si sviluppa su più livelli. Da un lato vi è il internazionale, dove il principio di non discriminazione, oltre che in convenzioni specifiche come la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne o la Convenzione sulla discriminazione razziale, risulta presente in buona parte degli strumenti. A livello regionale europeo la Convenzione Europea dei diritti umani (CEDU) contiene due disposizioni in materia: l’art. 14, che sancisce che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione e l’articolo 1 del Protocollo n. 12 (che purtroppo l’Italia non ha ratificato) che contiene un divieto generale di non discriminazione, riferito al godimento di tutti i diritti previsti dalla legge.
In ambito comunitario, la normativa in materia è variegate e non offre una tutela omnicomprensiva in quanto, in considerazione della natura dell’Unione, differenze di trattamento sulla base della nazionalità, per esempio, sono espressamente previste. Oltre all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE occorre richiamare la Direttiva 2000/43/CE che attua il principio di parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica relativamente alla formazione professionale/condizioni di lavoro, protezione sociale compresa sicurezza sociale e assistenza sanitaria, istruzione, accesso a beni e servizi (offerti al pubblico) e alla loro fornitura incluso alloggio;
la Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro;
la Direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda esclusivamente l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro;
la Direttiva 2004/113/CE che attua il principio dell’eguaglianza di donne e uomini nell’accesso ai beni e servizi e alla loro fornitura;
la Direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
Le direttive 2000/43 (sul divieto di discriminazione razziale ed etnica) e 2004/113 (uguaglianza fra uomini e donne nell’accesso ai beni e servizi) rappresentano un punto di rottura con il passato in quanto risultano applicabili anche al di fuori dell’ambito giuslavoristico, al quale si limitava la disciplina precedente. La tutela antidiscriminatoria in ambito civilistico è comunque ancora più limitata rispetto al settore lavorativo.
In ambito nazionale la normative comprende il D. Lgs. 215/2003 di attuazione della direttiva 2004/43/CE, dettante norme contro le discriminazioni per motivi di razza ed origine etnica. Il decreto ha costituito, nell’ambito del Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Ufficio per il contrasto delle discriminazioni razziali (UNAR) il quale, tra l’altro, ha anche la possibilità, per il tramite di un contact center, di raccogliere le denunce delle vittime di discriminazione, fornendo loro un’assistenza immediata e accompagnandole nel percorso giurisdizionale, qualora esse decidano di intraprenderlo. La nuova normativa consente a chiunque si consideri vittima di una discriminazione, sia diretta che indiretta, o di una molestia fondata sul motivo della razza o dell’origine etnica, di agire in giudizio per l’accertamento e la rimozione del comportamento discriminatorio.
Vi sono poi il D. Lgs. 216/2003 di attuazione della direttiva 200/78/CE, dettante norme contro le discriminazioni per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.
L. 76/2006 che introduce specifiche disposizioni per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni.
L. 40/1998, artt. 43 e 44: disciplina generale volta ad offrire riparazione del danno e rimozione degli effetti di qualsiasi atto discriminatorio L’azione può essere esercitata individualmente o, per delega, attraverso un’associazione o ente operante nel campo della lotta alle discriminazioni.
L. 300/1970: divieto di discriminazione in ambiente di lavoro, relativo all’assunzione e alla retribuzione (artt. 8, 15 e 16)
In ambito penale la legge n. 654/1975, ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale punisce
- a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
- b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Lei attualmente si trova nei Balcani, qual è la situazione in quei territori? Segue un progetto specifico?
In questo momento sto lavorando sia nei Balcani che nel Caucaso in alcuni progetti che hanno come obiettivo la promozione della tutela dei diritti umani attraverso la formazione di magistrati e operatori legali. In particolare mi sto occupando sempre di più di discriminazione e dell’uguaglianza di genere, con particolare attenzione alle donne. Come del resto anche in Italia, stereotipi e “cultura” contribuiscono a perpetuare una situazione di sostanziale disuguaglianza delle donne, che si traduce in minori opportunità economiche, sociali e politiche. I meccanismi per superare questa situazione ci sono in quasi tutti i Paesi: quello che manca è, in prima battuta, la consapevolezza che esiste una situazione di disuguaglianza delle donne e, di conseguenza, l’attivazione dei meccanismi sia da parte delle donne direttamente coinvolte che da parte delle autorità.
Il suo è un impegno professionale e umano e immaginiamo sia grande il carico emotivo da investire. Quali sono stati, o sono, i momenti più difficili da affrontare durante il lavoro che svolge?
Ultimamente, per conto del Consiglio d’Europa, mi sto concentrando molto sull’analisi della normativa antidiscriminazione e disuguaglianza, con contestuale elaborazione di proposte di modifica, e della formazione dei professionisti legali (magistrati e avvocati) e altri operatori (ad esempio polizia penitenziaria) sugli standard internazionali e sui meccanismi di tutela. A livello internazionale, pertanto, in questo momento non ho il contatto con donne vittime di violenza che ho avuto in passato (ad esempio quando mi sono occupata delle condizioni carcerarie delle donne in Afghanistan o della loro riabilitazione socio-lavorativa all’uscita dal carcere). Sicuramente incontrare queste donne, sapersi privilegiata e non poter fare nulla nell’immediato se non condividere la loro storia e condizione è certamente la parte più difficile del mio lavoro. Anche rivivere la violenza delle donne vittima di stupro di guerra in Bosnia, allorquando mi sono occupata del monitoraggio dei processi relativi al conflitto, è stata un’esperienza di grande impatto che mi ha significativamente toccata e, in un certo senso cambiata. Se ora mi occupo principalmente di cercare di cambiare il sistema è anche per le esperienze che ho avuto e le donne che ho incontrato. A livello nazionale, invece, chi accompagno nel loro percorso volto ad ottenere la protezione internazionale sono le donne migranti, vittime di tratta. In questo percorso sono spesso accompagnata da mediatrici e psicologhe, e la parte più difficile è riuscire a condividere la sofferenza di queste ragazza, a volte giovanissime, che anche all’interno delle strutture spesso continuano a subire le minacce dei trafficanti o delle maman, che si indirizzano non solo a loro ma anche alle famiglie o ai figli che hanno lasciato nel paese di origine. Convincerle che ci sono alternative non è così facile perché occorre superare barriere culturali molto forti. Ma quando si raggiunge il risultato è una grande gioia (e vittoria) per tutti, me compresa.
Grazie per aver risposto alle nostre domande e arrivederci al XXX Salone del Libro di Torino, dove sarà ospite nell’ambito del programma di incontri del Concorso Lingua Madre, in dialogo con Daniela Finocchi e le autrici!
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