E’ una grande fonte di riflessione l’incontro che si è tenuto quest’oggi alla sala Azzurra del Salone Internazionale del Libro con il reporter torinese Domenico Quirico. L’argomento della conferenza è stato scelto in occasione della pubblicazione digitale del reportage “Da piazza Maidan a Sebastopoli”, che  raccoglie le testimonianze di Quirico dall’Ucraina.

La conferenza si apre citando la difficile situazione che giovani uomini ucraini sono costretti a patire, morendo “sognando l’Europa”. E’  un’Europa ideale e puramente utopica, che secondo Quirico promette ma non mantiene. Si contrappongono, quindi, un’Europa diversa da ciò che dice di essere e persone che, invece, si sono battute per entrare a far parte di un sistema di regole, basandosi su ideali profondi di democrazia e sacralità dell’individuo. Questo rappresenta la fine e la contraddizione, rendendo possibile il paragone con gli anni della Cecoslovacchia, con l’invasione tedesca e con la democrazia dell’Occidente, che stipulò e fu complice di un baratto con Hitler.

La risposta ad una serie di domande ha permesso al reporter di portare alla luce quando, dove e perchè sia nata la sua concezione di giornalismo. Agli occhi di Quirico, infatti, la passione per il suo lavoro deriva dal genocidio olandese, che ha cambiato in modo radicale il suo rapporto con la vita, con il mondo e con la storia. Lo definisce un genocidio dal carattere unico, in cui gli Europei, analogamente a quanto accaduto per Olocausto e Shoah, hanno rivestito allo stesso tempo il ruolo di colpevoli e protagonisti. Trovarsi a raccontare l’istante in cui un uomo ammazza un uomo, magari un parente, un collega o un vicino di casa, trovarsi a raccontare una strage di ottocentomila vittime. E’ proprio in questa occasione che il giornalista ha compreso che tra l’umile e secondario lavoro di reporter, e la condizione umana delle persone che perdevano la vita c’era un rapporto direttamente proporzionale.

Parlando, poi, della sua prigionia in Siria, Quirico riferisce quell’interrogativo a cui da quel momento non è ancora riuscito a dare una risposta: si chiede se sia ancora in possesso della capacità di raccontare di un mondo di uomini che vengono “stritolati dal male”. Non sa se e quando sarà in grado di tornare a descriverli. Ciò deriva probabilmente dal fatto che, dopo quella sua tormentata disavventura, definita ironicamente dallo stesso “piccola”, non sia più stato in luoghi in cui la concezione umana del male è analoga a quella siriana. Sottolinea, quindi, quanto i luoghi interdetti al giornalismo occidentale rappresentino un fenomeno sempre più vero.

Come conseguenza a questa riflessione, conclude l’incontro definendo il Califfato come “il progetto politico dell’Islam di oggi” ed affermando che ciò che rappresenta la sostanziale novità, forse ancora non percepibile e comprensibile a tutti, è un meccanismo che funziona da solo, dotato di un’organizzazione oscura che si ordina meccanicamente e che ha come scopo l’eliminazione di tutti i regimi nemici e lo scontro diretto e militare con l’Occidente.

E’ frutto di un tempo che infiamma e crea, a differenza del nostro che attenua e nasconde ed è proprio per questo che i secoli di dominazione musulmana non appartengono solo al passato. Essi costituiscono piuttosto un’offesa presente che dev’essere repressa il prima possibile, attraverso la comprensione delle rabbie e dei problemi di questi popoli.

Federica Guizzo e Federica Brutti

Redazione Alfieri