Intervista ad Alessandra Pigliaru, Presidente della Società Italiane delle Letterate e collaboratrice per le pagine culturali de Il Manifesto
Quanto incide secondo lei la letteratura delle donne nella realtà di oggi? Quanto peso hanno i loro immaginari e qual è il valore politico?
La letteratura scritta da donne è cruciale oggi, come ieri e certamente domani. Non si tratta di un prodotto di nicchia né le si riconoscerebbe appropriata collocazione definendola “di genere”, ciò la rende spesso agli occhi della critica meno attenta come un oggetto già automoderato in una non ben identificabile “letteratura al femminile”. La produzione di saperi critici e scritture da parte di donne è invece una irrinunciabile possibilità di conoscenza per tutte e tutti. Gli immaginari rappresentano altrettante declinazioni del presente, della realtà come dell’altrove. Tutto questo è già politica, lo è in un senso eminente di saper convocare il mondo, i corpi che lo abitano, le storie che lo attraversano, le assenze immedicabili e molto altro ancora. In questa direzione, il lavoro che negli ultimi venti anni ha svolto la Società Italiana delle Letterate, dalla parte delle scrittrici e della critica femminista, mi pare possa dare un quadro efficace dell’ottimo panorama esistente, letterario e politico. Tra i moltissimi esempi, penso a uno recente: il corso di formazione su Elsa Morante e le scrittrici del Novecento appena conclusosi all’Università di RomaTre organizzato da Laura Fortini e dalla Sil e che era rivolto a insegnanti delle scuole medie-superiori. È stato un successo, non solo per la partecipazione inattesa di così tante insegnanti da tutte le parti d’Italia ma per la lungimiranza di pensare la letteratura scritta da donne come una relazione sempre aperta, da condividere e discutere in tanti luoghi. C’è un desiderio profondo di parlarne, ancora e ancora.
Le donne hanno “frequentato” e frequentano spesso il genere autobiografico. Secondo lei che valore ha questa scelta di scrivere grafie del sé? È una forma di resistenza? Rispecchia un’esigenza specifica? È possibile narrare senza lasciare tracce del sé nella scrittura?
Il genere autobiografico, così come il memoir è piuttosto frequentato. Tuttavia non sottovaluterei anche gli altri generi, dalla fantascienza alla forma del racconto. Così come anche la non-fiction o la poesia. La verità è che le donne che scrivono sono dappertutto e la loro irruzione non è considerabile secondaria se non a patto di essere ignoranti. L’esigenza mi pare sia quella di prendere parola sul mondo. Da Jane Austen alle scrittrici contemporanee, ce ne sono di bravissime, alcune anche molto giovani. Nei casi più sapienti, partono da sé. Mi viene in mente quello che è riuscita a fare una scrittrice come Elena Ferrante, per parlare di un caso recente e di successo mondiale. Sarebbe sbagliato parlarne come di un “caso letterario” qualsiasi, è piuttosto l’esempio di come si possa rendere conto della propria differenza sessuale, è questo elemento che, innervato in una storia all’apparenza semplice eppure eccezionale, ha avuto la forza di parlare a chiunque e a tutte le latitudini. Ma nella letteratura, gli esempi di questo felice incontro sono numerosi. Del resto, chi può accorgersi di questo sono per la maggior parte le donne, non solo quelle che scrivono ma soprattutto quelle che leggono. Gli ultimi dati sulla vendita dei libri, in Italia, ci restituiscono uno scenario in cui le lettrici superano di gran lunga i lettori. Se non fosse per loro, per le lettrici, il nostro paese potrebbe essere considerato in uno stato di profonda e mesta pigrizia.
Secondo lei esiste una “specificità” femminile nell’approccio alla scrittura?
Le cose sono più complesse e non rientrano nelle “specificità” che spesso ci inducono al malinteso secondo cui siamo dinanzi a un destino puramente biologico. Si tratta invece di saperi e di sapienza acquisita. C’è chi li sa utilizzare e chi no. Riguardo il processo della scrittura mi viene in mente un piccolo libro a cura di Maria Rosa Cutrufelli e pubblicato di recente da iacobelli editore che si intitola Quella febbre sotto le parole, sono delle narrazioni brevi in cui alcune scrittrici del Novecento raccontano il proprio rapporto con la scrittura. Francesca Sanvitale, Luce D’Eramo, Alice Ceresa, Grazia Livi e altre ancora. Tutte molto diverse tra loro, tuttavia è impossibile non notare come il legame con il corpo e l’esperienza non segni tutte loro, in una capacità straordinaria che è anzitutto relazionale, generativa, e ha qualcosa che le sottende; per me è la differenza sessuale.
Si parla tanto di “letteratura migrante”, che cosa ne pensa lei in proposito? È giusto definirla in questo modo?
È giusto definirla in questo modo solo se ciò restituisce una esperienza inaggirabile per le autrici. Quando cioè non si tratta di categorie ma di una scrittura che dà giustizia di chi la scrive e del perché l’ha scritta.
Nell’ambito dell’appuntamento organizzato dal Concorso Lingua Madre al XXX Salone Internazionale del Libro di Torino sarà in dialogo con due autrici, Alketa Vako – di origine albanese e da diversi anni in Italia – e Pinuccia Corrias, sarda come lei e migrante due volte, in Piemonte e in Sicilia. Al di là dei contenuti delle loro opere, pensa che questa esperienza influenzi la loro scrittura stilisticamente e linguisticamente?
Sia nel caso di Alketa Vako che nel caso di Pinuccia Corrias le esperienze fatte si traducono in narrazioni stilistiche e linguistiche del tutto originali. Si sono trovate entrambe ad avere a che fare con la propria lingua madre e con le trasformazioni che negli anni hanno potuto vivere, materiali e simboliche. È inevitabile che questo emerga anche nella scrittura.
Le autrici del Concorso Lingua Madre raccontano di identità e appartenenze multiple, soggettività ibride, di continue contaminazioni e interazioni con l’alterità. Quanto hanno a che fare questi aspetti con il concetto di vulnerabilità di cui ha scritto e parlato altre volte?
Credo che la vulnerabilità sia un elemento presente in tutti gli aspetti elencati. Spesso la si guarda come una forma di fragilità e debolezza, è invece una forza ineguagliabile che ci consente di toccare il nostro sé come gli altri e le altre; scopriamo la vulnerabilità solo attraverso l’esperienza di entrare in relazione. La vulnerabilità è la scoperta di una ferita che ci rende viventi.
Grazie per le sue risposte e arrivederci al Salone del Libro 2017!
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