Uscirà a maggio L’alterità che ci abita, libro che raccoglie una serie d’interventi per i dieci anni del concorso Lingua Madre.

Intervista a Giuseppina Corrias, docente del Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre

Autrice del saggio

Itinerari d’esilio 

in “L’alteritá che ci abita – donne migranti e percorsi di cambiamento – Dieci anni del Concorso letterario nazionale Lingua Madre”, a cura di Daniela Finocchi – Edizioni SEB27 http://www.seb27.it/content/alterità-che-ci-abita

1)  Il lavoro di analisi dei testi convogliato poi nel volume L’alteritá che ci abita – Donne migranti e percorsi di cambiamento ha impegnato del Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre per oltre due anni. Come è stata per lei questa esperienza e cosa ha significato?

L'alterità che ci abita Gli incontri con il gruppo sono stati per me un’esperienza vitale e coinvolgente. Ho conosciuto altre donne molto speciali e approfondito la relazione con quelle che già conoscevo e questo allargamento del cerchio di carne, cioè di quelle relazioni tra donne che ti mettono in moto il pensiero ma anche accrescono l’ammirazione verso altri esseri del tuo stesso sesso, rafforza l’autostima e anche  la fiducia che il cambiamento della realtà passi proprio attraverso questa politica quotidiana della differenza nelle relazioni.

2)  Voi parlate di “lettura situata dei racconti”, cosa si intende e in cosa si differenzia da una normale analisi dei testi?

Lettura situata è un modo di dire inventato  parecchio tempo fa da Aida Ribero e che io ho ampiamente spiegato nel mio testo chiamandolo anche circolo ermeneutico sessuato. Intanto è un pensiero che nasce in presenza, ossia in una relazione con altre donne, non perché si scriva a più mani o perché si citino altre, quanto piuttosto perché ciascuna si fa carico di ciò che l’altra donna – sia l’autrice del testo in questione sia l’altra presente di fronte a noi in carne ed ossa – sta cercando di mettere al mondo. Non si tratta cioè di prendere un manufatto e applicare ad esso una serie di regole interpretative ma piuttosto di assumere una postura che ci porti a non dimenticare il nostro essere donne, anzi che faccia di questo il nostro punto di forza.

3)  Il suo saggio quale aspetto approfondisce e perché?

Quello della migranza, come io la definisco nel mio testo, cioè quella dimensione di taglio, esilio, inappartenenza che caratterizza ogni partenza, ogni distacco, ogni movimento, qualunque ne sia la ragione e che è connaturata forse alla vita stessa, per cui siamo tutti/e migranti.

4)  A lei è mai capitato di sentirsi “straniera” o di identificarsi con qualcuna delle protagoniste dei racconti che ha letto? Può spiegare in che modo e perché?

Capita a volte di sentirsi straniere perfino a se stesse! Non parlerei, tuttavia, di “identificazione”. Anche a questa domanda ho risposto nel testo, chiarendo l’origine della mia scrittura e di questo modo situato di porsi col testo dell’altra e in dialogo con le altre a cui la scrittura, così come il pensiero, è rivolto. Io credo che l’immedesimazione sia una forma a cui ci hanno abituato opere in cui le “eroine” nascevano da un immaginario maschile, in cui  spesso gli autori manifestavano parti di sé, per definizione non virili, anomale… Insomma era sempre il Medesimo il protagonista, l’interlocutore e l’autore. Si può pensare, tanto per fare gli esempi più famosi, alla Laura di Petrarca, a Madame Bovary di Flaubert o alla stessa Lucia di Manzoni ma anche a tutta la produzione rosa o popolare. Ma come se non bastasse anche quando le donne sono diventate autrici di se stesse, una lettura accademica o semplicemente canonica, ne ha svilito e spesso frainteso il pensiero. Penso a Deledda, infilata di forza nel Decadentismo e dunque trovata “inadeguata”; all’Agnese della Renata Viganò,  guardata come una “contadina” e perciò stesso totalmente fraintesa e esaltata o ridimensionata secondo logiche che in quanto donna e lavandaia non le appartenevano minimamente. No, non si tratta di identificazione ma piuttosto di allargare il cerchio di carne  di cui ho già detto e lasciare che le voci conservino il loro timbro di donne che godono, soffrono, cantano, gridano, camminano  accompagnandole col nostro. Come quando da bambine entravamo a saltare nell’onda della corda e ci  accompagnavamo tutte insieme nel movimento, cantilenando il tempo: arancio limone mandarino….. E questo era l’esercizio in cui imparavamo, giocando insieme, a stare al mondo. Ecco, il gruppo è stato tutto questo. Un modo per stare al mondo e imparare a starci da donne. Se è possibile, con agio.