Uscirà a maggio L’alterità che ci abita, libro che raccoglie una serie d’interventi per i dieci anni del Concorso Letteraio Nazionale Lingua Madre.
INTERVISTA A LUISA RICALDONE
Università di Torino e Società Italiana delle Letterate
Docente del Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre
Autrice del saggio
Nutrimenti. Cucina e scuola nelle donne di seconda generazionein “L’alteritá che ci abita – donne migranti e percorsi di cambiamento – Dieci anni del Concorso letterario nazionale Lingua Madre”, a cura di Daniela Finocchi – Edizioni SEB27
http://www.seb27.it/content/alterità-che-ci-abita
1) Il lavoro di analisi dei testi convogliato poi nel volume L’alterità che ci abita – Donne migranti e percorsi di cambiamento ha impegnato il Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre per oltre due anni. Come è stata per lei questa esperienza e cosa ha significato?
Incontrarsi per confrontarsi su temi che ci stanno a cuore è sempre un’esperienza arricchente; in questo caso il di più è stato dato dall’amicizia che lega alcune di noi (amicizia nata da collaborazioni e lavori comuni precedenti), e dal fatto che fra noi fossero presenti donne di età diversa, appartenenti in certi casi decisamente a generazioni diverse. Questo ha prodotto uno scambio di idee, di esperienze culturali, personali e affettive non solo sul piano orizzontale del dibattito ma anche su quello verticale delle “genealogie” di donne a confronto.
2) Voi parlate di “lettura situata dei racconti”, cosa si intende e in cosa si differenzia da una normale analisi dei testi?
Per rispondere a questa domanda, mi piace riferire alcune righe dalla presentazione, a firma di Aida Ribero e mia, del volume Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento (Il Poligrafo, 2011): “La lettura di un testo dà luogo a un’attivazione del pensiero che smuove il giudizio, amplia il senso di sé e del mondo, apre nuove possibili prospettive, in modi differenti in relazione agli sguardi dei soggetti implicati. […] Proprio dall’attività del leggere emerge il ruolo incisivo delle ‘altre necessarie’ ”. Si tratta insomma di una pratica di lettura basata sul “pensare in relazione”, a partire da sé. Di differente da una lettura “normale” c’è che nel nostro caso riteniamo non indifferente se a scrivere sia una donna o un uomo, perché scrivere è costruire simbolico, e le nostre letture portano alla luce e nominano quel simbolico.
3) Il suo saggio quale aspetto approfondisce e perché?
Il mio saggio tratta del passaggio dalla cosiddetta prima generazione alla seconda, visto attraverso due modalità di rapporto delle donne che scrivono con se stesse e il mondo: il cibo e la scuola. Due nutrimenti, del corpo e dell’intelligenza, che si integrano a vicenda e che testimoniano della conservazione/rifiuto delle proprie usanze, delle relazioni intergenerazionali madri/figlie-i e della interazione con il paese di arrivo. La mia scelta è caduta su questo argomento perché negli ultimi anni ho riscontrato una crescente presenza di racconti firmati da giovani donne.
4) A lei è mai capitato di sentirsi “straniera” o di identificarsi con qualcuna delle protagoniste dei racconti che ha letto? Può spiegare in che modo e perché?
È inevitabile: la lettura dei racconti riattiva i ricordi personali.
Sì, a mia volta sono stata emigrante, nel senso che ventinovenne, stanca di un lavoro di insegnante privo di prospettive di stabilità (in quegli anni, 1979, si pensava al lavoro sicuro!), partecipai a vari concorsi ministeriali e vinsi un lettorato all’estero. Mi trasferii a Vienna, dove rimasi per circa dodici anni. Emigrata di lusso, sicuramente, anche se per il primo anno, a causa di ritardi burocratici da parte italiana, non ricevetti lo stipendio e dovetti chiedere un prestito all’ambasciata del nostro paese per poter affittare un piccolo appartamento riscaldato con una stufa a carbone con la quale lottai non poco per attivarne quotidianamente il fuoco! Però emigrata in un paese di cui conoscevo ancora poco la lingua, in una città in quegli anni grigia e malinconica, ultimo baluardo verso l’est. Mi salvò la musica: tutte le sere o quasi, all’Opera, posto in piedi, e qualche amico. Anch’io ho conosciuto la fatica, le pratiche di soggiorno, sebbene semplificate da una amministrazione ineccepibile, e anche la bellezza di (ri)cominciare, di scrollarmi di dosso dipendenze affettive divenute ingombranti, di frequentare la Biblioteca Nazionale viennese, ricchissima di testi del secolo di cui mi stavo occupando, il XVIII. Il lavoro mi aiutò molto, a poco a poco ampliai le mie conoscenze, e così decisi, allo scadere del contratto biennale, di rinnovarlo e rinnovarlo ancora. Non mi sono mai sentita austriaca e, tornata in Italia, non mi sentivo più torinese. Non solo: mi accorsi che il mio italiano si era impoverito, e del tedesco, come ricercatrice di letteratura italiana contemporanea all’università di Torino, non me ne facevo granché. Dovetti ripercorrere la strada del ritorno, esattamente come anni prima avevo percorso quella dell’andata. Da allora sono tornata a Vienna molte volte, soprattutto all’inizio, mentre ora ho desiderio di luoghi nuovi, a Vienna non penso più, se non per alcune relazioni ancora vive.
Trascorsi ormai molti anni, non posso che valutare positivamente quell’esperienza, per tutto ciò che mi ha dato, in autonomia, relazioni, attività lavorativa. Tuttavia penso che non fu una scelta dettata dal desiderio bensì dalla sottrazione; non si trattò di spinta al miglioramento, ma di fuga.
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