INTERVISTA A VALENTINA PORCELLANA

Università di Torino

Docente del Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre

Autrice del saggio

DOV’È LA MIA CASA?

in  “L’alteritá che ci abita – donne migranti e percorsi di cambiamento – Dieci anni del Concorso letterario nazionale Lingua Madre”, a cura di Daniela Finocchi – Edizioni SEB27

http://www.seb27.it/content/alterità-che-ci-abita

 

  1. Il lavoro di analisi dei testi convogliato poi nel volume L’alteritá che ci abita – Donne migranti e percorsi di cambiamento ha impegnato del Gruppo di Studio del Concorso Lingua Madre per oltre due anni. Come è stata per lei questa esperienza e cosa ha significato?

L'alterità che ci abitaPer me è stata un’esperienza nuova, che mi ha turbato, commosso, interrogato… Non avevo mai avuto occasione di confrontarmi all’interno di un gruppo di sole donne (e che donne!), intergenerazionale, e che aveva riflettuto (e combattuto) per anni per l’affermazione del pensiero di genere. Avevo invitato Daniela Finocchi e Paola Marchi a lezione a parlare con i miei studenti e a leggere con loro alcuni dei racconti di Lingua Madre, era importante per me “far entrare” il concorso in aula, ma non mi aspettavo di “entrare” io stessa, in qualche modo, nel concorso… E poi, tra l’imbarazzo e l’emozione, ho ritrovato nel gruppo una delle mie docenti preferite ai tempi dell’università, Luisa Ricaldone. Ci ho messo un po’ a darle del tu… E poi due “mostri sacri” come Aida Ribero e Pinuccia Corrias e una collega tra le più brillanti dell’ateneo, Daniela Fargione. Insomma, donne da far tremare i polsi ad una come me, di una generazione che ha creduto (almeno per un po’) di poter vivere di rendita sulle conquiste delle proprie madri…

  1. Voi parlate di “lettura situata dei racconti”, cosa si intende e in cosa si differenzia da una normale analisi dei testi?

Per me non è stato semplice “partire da me” per rileggere i testi delle scrittrici del concorso, non è stato facile come non lo è prendere coscienza di sé, rileggendo la propria biografia a partire dai vissuti di altre donne. Ho accolto la proposta del gruppo con un po’ di resistenza. Ci ho messo molto tempo a scrivere il mio articolo, l’esercizio è stato più difficile del previsto perché il mio percorso di analisi su me stessa era (ed è) ancora in corso. Il tema scelto, quello della casa, racchiude i significati più profondi della vita di ciascuno di noi. Scrivere a partire da una “lettura situata dei racconti” è faticoso perché richiede di fermarsi, di ascoltarsi, non soltanto di ascoltare l’altro/a (in questo, come antropologa, sono abituata). Mettermi in gioco in prima persone è stato difficile, addirittura doloroso. Ho cercato il più possibile di sottrarmi, ma la forza del gruppo, di queste donne meravigliose, mi ha dato il coraggio di espormi (almeno un pochino…).

  1. Il suo saggio quale aspetto approfondisce e perché?

Da alcuni anni mi interrogo sull’importanza della casa nella vita delle persone, lavoro fianco a fianco con persone che non hanno casa e io stessa mi sento ancora alla ricerca della “mia” casa. Non si tratta soltanto di mura e mattoni, ma di relazioni, senso di sicurezza, intimità con se stessi e con le persone che ci sono più vicine. E’ anche nutrirsi, lavarsi, prendersi cura di sé e degli altri, avere un luogo per gli affetti e l’amore. Insomma, la casa è un sistema simbolico complesso. Si sogna, si desidera, si abbandona, si perde, si riconquista… Le donne che hanno affrontato questo tema nei loro racconti portano con sé un ricordo, un sapore, un odore di quella cucina, di quella stanza da letto, di quell’angolo di casa in cui c’erano le persone più care, gli affetti più intimi…

  1. A lei è mai capitato di sentirsi “straniera” o di identificarsi con qualcuna delle protagoniste dei racconti che ha letto? Può spiegare in che modo e perché?

Come ho scritto nel mio saggio, la pratica etnografica  che caratterizza il lavoro di un antropologo (e che spesso travalica i confini del lavoro per entrare in quelli della vita privata…) è stata spesso paragonata al viaggio, non solo perché prevede uno spostamento fisico del ricercatore, ma anche per la metafora a cui rimanda, un’esplorazione di mondi e quindi di sé. Un buon antropologo deve vivere, prima o poi, lo spaesamento, altrimenti non può lascirsi interrogare da ciò che lo circonda. Dunque “sentirsi straniero” è la prima sensazione che provo ogni volta che esploro un contesto nuovo, fino a quando mi sento di nuovo “a casa”, cioè quando trovo, per un certo tempo, il mio posto, per poi ripartire. Come fanno Martha e Susana nel racconto di Laura Gentili e tutte quelle donne che continuano a cercare se stesse e il senso profondo della loro vita.