Maurizio Maggiani durante l’incontro del salone off365 del 14 dicembre ci racconta il suo nuovo libro “Il romanzo della nazione” che ha già vinto il premio Elsa Morante presso la biblioteca civica Villa Amoretti di Torino.
Maurizio Maggiani è nato a Castelnovo Magra e ha pubblicato la maggior parte dei suoi testi grazie a Feltrinelli.
Il protagonista, Maurizio, parla in prima persona. Punto fondamentale è la vicenda famigliare che si intreccia e diventa la parabola di una grande storia collettiva e di come si fa ad alimentare le speranze quando sono perdute. La storia intreccia più trame, eventi grandi e piccoli. È come un grande fiume che porta con sè ogni cosa che incontra lungo il suo incontro. È un romanzo estremamente generoso, perché le storie del mondo, degli uomini sono più ricche e non possono farsi prefissare in modelli.
-Quando eravamo molto giovani dicevamo sempre che il personale è politico. Il suo libro è un incoraggiamento continuo a non svalutare la nostra storia personale, a cercare degli elementi che siano utili a rianimare la polis. Questo romanzo parla alla nostra generazione.. Riusciamo ad arrivare ai nostri figli?
Non lo so, ma penso di essere qui come la nemesi di Alessandro Manzoni: questa è la mia visione. Perché Manzoni ha raccontato davvero bene molte storie, ma cosa c’è dentro i Promessi Sposi? C’è una cosa orribile: Renzo e Lucia sono giustificati. Il loro agire, il loro essere è giustificato dalla storia e io sono convinto esattamente del contrario.
Io sono convinto che come Renzo non sono nessuno. È la nostra vita che giustifica la storia. I documenti della storia non hanno senso insieme perchè per raccontare la storia, bisogna prima viverla.
La mia vita è comunque per diritto naturale una grande vita, così come quella di ognuno di voi. L’idea di vite piccole è una follia, così come l’idea di vite umili è una stupidaggine. Persino là dove è silenziosa o non sa come esprimersi, è vasta.
L’idea comune è che esiste un unico destino: quello che la realtà mi impone. Se tuttavia io pensassi che è davvero così, non potrei vivere, ma sarei solo un essere che va a morire. C’è il destino che mi si impone ed è quello che cerco di conquistare e di ottenere. Per inciso, le critiche più favorevoli ai miei romanzi dicono che racconto storie di umili, anche se io non ne ho mai conosciuti in tutta la mia vita.
Vengo da una famiglia di umiliati, ma mai umili. Io l’orgoglio della sovranità l’ho imparato dai miei romanzi. Ci sono i miei genitori nel libro perché “la nazione” tanto per cominciare sono loro.
-la cultura che può fondare nazioni è qualcosa che si può mangiare, di cui si può fruire?
No, scrivere o leggere non dà da mangiare, ma il pagliacciume si.
Perché l’umanità può salvarsi? Perché l’antropologia è lentissima. Talmente lenta che continua a mangiare il pane. Però, perché io ho imparato a raccontare? Perché me l’avevano insegnato. Io ho passato l’infanzia e la giovinezza in una casa di miserabili che dopo aver lavorato 12-14 ore al giorno, si mettevano a cena, a tavola, e davano il via a un’epopea, dove tutto assumeva una dimensione straordinaria.
La lettura non salva, ma dà una bella mano. Si racconta, si scrive perché la vita prende voce e nel dispiegarsi si dilata e si espande.
L’Iliade nasce per questo. Voi immaginate che Achille e Ettore fossero migliori di quelli che han combattuto in Bosnia o delle persone morte nelle guerre, anche se non è così. Però perché nell’immaginario comune sono più belli e più forti? Perché è bastato che uno che era lì abbia deciso di raccontarne le gesta e avendo preso anche lui parte alla guerra, l’ha resa come la migliore e più tragica del mondo.
La vastità, la grandezza ha bisogno di voce, altrimenti si perde e si distoglie.
Io che sono poco incline a vantarmi, ammetto che so raccontare, ho quest’arte. Perché non so fare un tavolo, il pane o una casa? Anche quella è un’arte: e io so raccontare.
Racconto storie che altrimenti non avrebbero voce. È un atto di giustizia e quindi mi giustifica.
-Parliamo di donne. In questo libro le donne non sono fondatrici di nazioni, ma sono custodi di radici. Nel 1946 c’è stato il voto alle donne. Sarebbe cambiato qualcosa nella nostra costituzione o il nostro sistema se le donne non avessero votato?
È un discorso un po’ complicato. Nel libro ci sono dei personaggi femminili, la nonna, la mamma, la zia e soprattutto la Anna che è invece una fondatrice di nazioni. Lei è priva di ciò che sua nonna o sua madre hanno avuto: un freno al patto libero di sovranità. Nella civiltà morente contadina in cui io sono nato, io sono stato cresciuto dalle donne di casa mia, da una struttura matriarcale. Mi si dice infatti che ho una sensibilità femminile. Le donne di casa mia hanno tenuto me e tutti i maschi di casa mia al riparo.
Il riparo viene dalla straordinaria forza femminile di organizzazione e manutenzione della vita.
-il sogno contro il fato: quanto peso ha ognuno?
Quando sono tornato a guardare mio padre da uomo adulto ho avuto il sospetto che fosse un sognatore e ho avuto per lui una gran bene, una grande tenerezza e ammirazione. Ma alla fine della sua vita quando si ammalò di alzheimer, la mia diventò ammirazione e pena. Egli riuscì a dire “vivere di sogni è un’utopia”. E come lui lo dissero centinaia di uomini. Ci sono molti uomini che hanno in mente un sogno, un’utopia e possono relazionare una cosa all’altra.
Ma mio padre intendeva la parola utopia come negativa o come meravigliosa? Egli ha combattuto contro il fato per il suo sogno, ma ha sposato una donna che atterra il sogno e accetta solo il fato.
Io sono poco interessato all’idea del fato. Io non credo che sia il mio romanzo a salvarvi, è la vostra voce a farlo. Io posso aiutarvi, ma che i muti parlino!
-Si può manipolare un sogno?
No, non si può fare, perché nessuno può entrare in un sogno. Forse la chimica può. Ci provano sempre a manipolare i sogni. Se hai la chiave, se sai muovere la stanza di un sogno, è possibile tutto. L’affare grosso è questo, ma penso che ci sia sempre una rivolta contro la manipolazione da parte degli individui.
Un grande regista televisivo, Sabel, fece con De Martino un viaggio nel 56 nel meridione a portare uno studio televisivo. Metteva un’antenna, una telecamera e una televisione, in modo da far vedere a chi non conosceva quel mondo.
Siamo in Lucania. Sullo schermo c’è una contadina vestita di nero e si sente una voce che dice “signora, ora la stanno guardando milioni di italiani. Ci dica un suo sogno, ciò che desidera più di ogni altra cosa” e lei risponde “un po’ di carne”.
Quel sogno non è meno grande del sogno di una nazione, e quello non si può manipolare.Con queste parole, che possiamo interpretare come un consiglio, un’ispirazione o qualcosa a cui tendere, si chiude lo spiritoso ma emozionante incontro con Maurizio Maggiani
Camilla Brumat, Redazione BookBlog
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