Pordenonelegge  nel giorno dell’apertura, ha offerto agli studenti un’occasione, quella di far
incontrare due generazioni  distanti 82 anni l’una dall’altra.
Boris Pahor, che di anni ne ha ben 101, nato a Trieste il 26 Agosto 1913, parla ai ragazzi  che si accingono ad affrontare la maturità, non solo della sua dura esperienza di vita e della sua stessa storia, ma anche dell’importanza della cultura come punto di slancio per l’affermazione della propria identità personale.
Ad aprire l’incontro “l’accusa”, lanciata dall’intervistatore a Boris, di essere un “fiume in piena”quando si tratta di rispondere ad una domanda. L’esordio dell’autore delinea perfettamente il tipo di persona che egli è, che di saggezza ne ha da vendere:”Dove c’è mancanza di giustizia e libertà, nessuno mi ferma”.
La prima problematica affrontata è quella della quasi totale assenza nei libri di testo scolastici, di argomenti scottanti come  alcuni aspetti del fascismo e della prima guerra mondiale, ma soprattutto delle guerre di confine e dei problemi sociali legati a questi fatti.

Il confine è statoper la sua generazione ed altre successive,  una realtà  fisica, ora invece, per le nuove generazioni,  è solo una linea immaginaria.
La particolare situazione della realtà triestina non è conosciuta in tutta Italia, e neppure il Friuli ne è veramente informato.
L’obbiettivo della sua produzione letteraria è proprio questo: far conoscere la storia a tutti, ma per cominciare vanno privilegiati proprio i giovani.
“Spesso si parla solo delle vicende più clamorose,  quelle che hanno fatto più vittime, ad esempio, e vengono tralasciati alcuni altri avvenimenti altrettanto importanti, come la questione dei campi di
concentramento minori. Ma non è corretto perché la storia va raccontata tutta, com’è andata veramente”.
Non ci sono stati solo i campi di concentramento per gli ebrei.

Ma ritornando a se stesso, racconta della sua esperienza e della sua vita, partendo dalla formazione scolastica avvenuta in seminario, come spesso accadeva a quei tempi, e del faticoso cammino alla ricerca della propria identità personale, etnica e culturale. E sono state  proprio la cultura e la lingua, quella slovena, mai ripudiata,  che gli hanno fatto trovare la sua identità,. Egli sostiene che l’identità non deve per
forza essere un’identità nazionale ma una condizione individuale.
La propria nazione e le proprie origini sono importanti e vanno mantenute, la propria lingua e cultura va ritenuta un valore importante ma non deve trasformarsi in nazionalismo.
Durante la sua esperienza nei campi di concentramento egli si é sentito un”cittadino del mondo” perché all’interno di quella realtà ogni differenza nazionale veniva annullata; aggiunge che credeva che, uscito dal campo, il mondo sarebbe stato come un ideale “giardino dell’eden”, ma purtroppo non è stato così: a distanza di pochi anni vennero sganciate le bombe su Hiroshima e Nagasaki.

La storia si ripete e raccontarla ai giovani, prima che i testimoni oculari degli eventi, come lui, se ne vadano è un investimento sul futuro. Ma la storia va raccontata con onestà.

Federica Elisa Barbui, Riccardo Martin

Liceo Grigoletti, Pordenone