Berlino, 1938: vengono promulgate le leggi razziali.
Gli ebrei non possono più camminare sui marciapiedi, ma sono costretti a stare sulla strada; non sono più considerati cittadini, ma esseri inferiori, di serie B.
Se i bambini, in tutto questo, si interrogano sulle loro colpe, gli altri iniziano ad escluderli dai giochi, dalle feste e dalle amicizie.
Carlo fa parte degli esclusi, degli emarginati, degli ebrei: non può più andare a scuola, divertirsi né giocare coi compagni.
Siamo agli inizi di quello che sarà il più grande genocidio della storia. Un tema profondo, toccante, raccontato da Daniela Palumbo ad un pubblico giovanissimo che non ha ancora avuto modo di conoscere quelle immagini, quei nomi, quelle storie.
È proprio questo l’obiettivo di Le valigie di Auschwitz, edito da Mondadori: sensibilizzare i giovani su quest’argomento, sulla strage che è una macchia per il genere umano e per far sì che riviva in noi per sempre la memoria di coloro che in prima persona provarono tutto ciò.
Ma ad Auschwitz, confessa l’autrice, non sono le camere a gas, i mucchi di capelli o gli odori, a far più effetto. Quel vetro che separa dalle valigie dei deportati, sulle quali tutti scrivevano i loro nomi, ignari di non poter più recuperare i propri vestiti, gioielli e averi: questo è ciò che di più toccante c’è ad Auschwitz, ciò che ci permette di immaginare l’identità e la vera essenza di quelle persone. Persone comuni, come noi, accusate ingiustamente e costrette a lasciare la famiglia, a lavorare nel fango per un pezzo di pane – diceva Primo Levi – e a perdere la propria dignità per scelta di un pazzo.
L’indifferenza è il dolore più grande: quella di coloro che reputavi amici, dei vicini di casa, delle maestre e dei compagni di classe.
Quell’indifferenza che ti esclude, ti annienta e alle fine ti uccide.
Alessandro Caruso, E.Majorana di Moncalieri
Tutor Fuorilegge
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